Di Riccardo Ciocci
Cosa si intende per servant leadership?
“Una filosofia di leadership in cui l’obiettivo del leader è servire. Diversamente dalla leadership tradizionale in cui l’obiettivo principale del leader è la prosperità della propria azienda o organizzazione. Un leader servente condivide il potere, mette al primo posto le esigenze dei dipendenti e aiuta le persone a svilupparsi e ad ottenere prestazioni il più elevate possibile”.
Questa è la definizione di servant leadership data dalla pagina inglese di Wikipedia.
Appena si legge questa definizione il primo pensiero è “che bello sarebbe avere come capo una persona del genere”, il che rende la figura del servant leader simile a quella dello Yeti: tutti ne parlano, alcuni dicono di averlo visto, ma per la scienza non ci sono prove della sua esistenza.
E quindi la prima domanda che ci si pone è: il servant leader esiste?
Servant leader: un bisogno primordiale
Per rispondere a queste domande ci viene in aiuto un testo di Simon Sinek, scrittore, noto motivatore e consulente di marketing inglese: Leader at Least (Ultimo viene il leader) del 2014.
Il tema da cui partire è che il servant leader non è una scoperta, ma una riscoperta.
Sinek espone in maniera analitica quali sostanze producono piacere nella specie umana. Esse sono quattro, nell’ordine: endorfina, dopamina, serotonina e ossitocina.
Le prime due sostanze sono in comune con moltissimi altri esseri viventi e sono prodotte dai risultati che vengono raggiunti individualmente. Esse riguardano unicamente noi stessi e ci danno la forza di raggiungere degli obiettivi che ci prefiggiamo.
Le ultime due invece sono uniche della razza umana, si sono sviluppate insieme alla neocorteccia all’epoca degli homo sapiens e ci danno il piacere nello stare con gli altri. Ci danno la sensazione di essere gratificati dai complimenti dell’altro, e ci danno la soddisfazione di aver aiutato una persona cara.
Citando testualmente:
“L’ossitocina però non ha il solo scopo di farci sentire felici. È anche vitale per il nostro istinto di sopravvivenza. […] È grazie all’ossitocina se riusciamo a fidarci di un altro nel momento in cui costruiamo il nostro business, facciamo qualcosa di difficile, dobbiamo uscire da un momento di crisi. È grazie all’ossitocina se siamo sensibili ai rapporti umani e ci piace stare con quelli che amiamo. L’ossitocina fa di noi degli animali sociali.”
Queste parole ci danno la giusta dimensione di quanto lavorare in team con persone con cui abbiamo un rapporto di fiducia sia un bisogno insito nel genere umano. Spesso, infatti, chi lavora a contatto con il pubblico, una volta finito di lavorare preferisce passare del tempo in solitudine. Al contrario chi svolge un lavoro che manca di relazioni con altri, queste vengono ricercate fuori dall’ambiente lavorativo. È una questione di equilibrio tra le quattro sostanze.
Agile, Scrum e Servant leadership
Ci sono diverse realtà che cercano di seguire la rotta della leadership servente e Sinek ne illustra diverse che nel corso degli anni si sono distinte per questo nel panorama americano, ma possiamo fare un ulteriore passo avanti: l’apertura all’errore, la collaborazione, la condivisione delle conoscenze sono concetti molto familiari per tutte quelle aziende che stanno applicando l’Agile Manifesto e il Framework Scrum.
All’interno dello Scrum Team possiamo infatti rilevare la presenza dello Scrum Master, ovvero di un leader a servizio del team, che supporta la squadra senza acquisirne il comando lavorando sulla fiducia (del team e dell’organizzazione in generale), sulla gestione dei conflitti, sulla comunicazione, oltre che sulla diffusione della cultura Agile e del framework Scrum.
Non per questo dobbiamo essere indotti a pensare che un servant leader sia possibile solo attraverso i framework Agile.
Come detto tante aziende sono riuscite a creare un clima di fiducia reciproca anche senza l’utilizzo di Scrum.
Ma di sicuro ora possiamo dare una risposta alla nostra primissima domanda:
Sì, il servant leader esiste.
Creare il cerchio della sicurezza
Nel privato come nel lavoro c’è bisogno di instaurare dei rapporti autentici, relazionali e professionali; non si tratta di amicizia ma di ciò che Sinek definisce “cerchio della sicurezza”.
In un gruppo di gazzelle quando la prima gazzella avverte il pericolo di un leone che sta per attaccare e inizia a correre, tutto il branco inizia a scappare insieme a lei. Nessuna gazzella mette in dubbio il perché la prima ha iniziato a correre, ognuna sa che c’è un pericolo e si fida del comportamento della compagna.
In un “cerchio della sicurezza” le cose accadono allo stesso modo. Ogni elemento nel cerchio tutela se stesso e ogni altro membro del team, con la certezza che anche gli altri faranno altrettanto.
L’obiettivo è allargare il cerchio della sicurezza affinché non riguardi solo il team di lavoro ma possa includere l’organizzazione nella sua interezza.
Come fa il servant leader a lavorare al cerchio della sicurezza?
Mantenere il contatto con la realtà. Tenere unite le persone.
Per quanto possano essere utili e funzionali i contatti che manteniamo con chat o mail, niente può sostituire l’incontro faccia a faccia (sesto principio dell’Agile Manifesto).
Gestibilità. Obbedire al numero 150[1].
Ricordare che una persona non può mantenere dei rapporti basati solidi, basati sulla fiducia con più di centocinquanta persone. Il lavoro da remoto non aumenta questo numero[2].
Il top management se vuole che i dipendenti si sentano all’interno di cerchi della sicurezza nel proprio posto di lavoro, deve far in modo che il personale massimo in una sede non superi questo numero.
Incontrare le persone che si devono aiutare.
Incontrare personalmente i dipendenti o i membri del team contribuisce ad alimentare la motivazione.
Dare tempo e non solo soldi.
Un vero leader viene riconosciuto come tale quando è disposto a dedicare alla propria squadra l’unica risorsa che non può essere rigenerata: il tempo.
La riconoscenza e il senso di appartenenza di un membro rispetto al resto del team, sarà tanto maggiore quanto più tempo si sarà speso in tal senso.
Pazienza. La regola dei sette giorni e dei sette anni.
Quanto tempo ci vuole per creare il rapporto di fiducia tale da creare il “cerchio della sicurezza”?
Io non lo so, ma Sinek scrive che ci vogliono più di sette giorni, ma meno di sette anni.
La cultura aziendale gioca un ruolo determinante anche in termini di competitività e in un mondo sempre più complesso caratterizzato da veloci cambiamenti, chi di noi non vorrebbe un cerchio della sicurezza in cui lavorare?
Spazio quindi alle relazioni umane sane, solide e ben orientate: il leader che smette di guidare e si pone al servizio ha la grande opportunità di contribuire a costruire una nuova cultura organizzativa.
[1] Sinek riporta alla base la legge di Dunbar che riporta l’impossibilità dell’uomo di mantere più di 150 relazioni stabili. Citando testualmente: “Robin Dunbar, antropologo inglese e professore al Dipartimento di Psicologia sperimentale di Oxford […] ha dimostrato che una persona non è in grado di gestire più di centocinquanta relazioni dirette alla volta con I propri simili. ‘In altri termini’, come piace dire a lui, ‘si tratta del numero di persone con cui non vi sentireste imbarazzati a sedervi a bere qualcosa senza essere stati invitati se vi capitasse di incontrarle in un bar.”
[2] L’autore riporta le conclusioni di un esperimento fatto dal giornalista Rick Lax su wired.com nel marzo del 2012 raccontato in un articolo dal titolo: “Dunbar’s Number KIcked My Ass in Facebook Friends Experiment.”
Sinek scrive: “Molti hanno creduto che, con l’arrivo di Internet, il numero di Dunbar sarebbe diventato obsoleto. Che saremmo stati in grado di comunicare simultaneamente con tante persone e avremmo potuto gestire in modo efficace un numero superiori di relazioni. Ma I fatti dimostrano che non è così. La partita la vince di nuovo l’antropologia. Possiamo avere anche 800 amici su Facebook, ma è improbabile che li conosciamo tutti personalmente, così come è improbabile che tutti e ottocento ci conoscano personalmente. Se vi sedeste e provaste a contattarli uno per uno, come ha fatto Rick Lax, un giornalista di wired.com, vi accorgereste subito che il numero di Dunbar è sempre valido. Lax si è stupito nel constatare quanto fossero pochi, tra I suoi oltre duemila ‘amici’, quelli che effettivamente conosceva e che conoscevano lui.”