Categoria: Definizioni

Di Marco Passarella

 

In azienda sappiamo tanto di come funzionano gli strumenti e i processi, ma sappiamo ancora poco di come funzionano le nostre teste. Quindi come entrano in relazione tra loro e quali sono le condizioni che aiutano i cervelli a funzionare meglio.

 

Lavoro in team: cosa serve per fare una vera squadra

Parliamo sempre di lavoro in team, ma mettere sette persone in una stanza non basta per fare un team. Se pensiamo all’ambito sportivo, nessuno penserebbe mai che sia sufficiente mettere in campo undici giocatori per avere una squadra. Ovviamente serve un percorso, che può essere anche molto lungo.

E allora cosa serve per fare una vera squadra? Ciascuna delle nostre teste diventa un neurone di un cervello più grande. Come? Attraverso la comunicazione. L’interazione che scaturisce dalle persone genera cose che non saremmo neanche in grado di immaginare. Mettiamo insieme le conoscenze, le competenze e le specificità di ciascuno. Al centro c’è la sinergia: creare connessioni per arrivare a ad alte prestazioni, grazie al potere dell’intelligenza collettiva.

Per far funzionare l’intelligenza collettiva, ciascuno deve accettare di perdere il controllo. Per creare la connessione, bisogna accettare che accadranno cose che non si possono prevedere. Quindi rinunciare a controllare la dinamica di gruppo per fare un salto di paradigma. Tutto comincia con la fiducia.

 

Come si attiva l’intelligenza collettiva

Per attivare l’intelligenza collettiva entrano in gioco diversi fattori:

obiettivi chiari: sembra banale, ma spesso capita che ci si ritrovi a fare cose che non sono né chiare né condivise. Quindi la chiarezza degli obiettivi è figlia di una qualità comunicativa.

sicurezza psicologica: le relazioni sono tutelate da dinamiche che valorizzano le persone, proteggono il pensiero, non sono giudicanti. Non c’è la paura di esporsi o di sbagliare. Anche qui riusciamo ad attivare questo ambiente grazie a una buona comunicazione

knowledge sharing: quanto è difficile trovare persone che sono disposte a condividere totalmente la conoscenza? Spesso la conoscenza è uno strumento di autotutela, o addirittura di potere. Se non si è disposti a condividerla, significa che si ha un problema. Da un punto di vista aziendale è pericoloso, perché la persona diventa un collo di bottiglia.

gestione del conflitto: persone con background diversi devono imparare a lavorare insieme e far sì che il conflitto che si genera porti a un risultato produttivo.

Fin qui abbiamo parlato solo di soft skill. Che possono essere applicate a qualsiasi contesto.

 

Il potere delle emozioni nel luogo di lavoro: il ruolo del manager

La diversità è ricchezza. Ciascuno porta una unicità che non possiamo prevedere che cosa potrà generare, se messa insieme alle unicità degli altri.

In un team ci sono anche tanti stati emotivi, e le persone, stando a contatto le une con le altre, imparano ad ascoltarsi e a bilanciare questi stati emotivi gli uni con gli altri.

Le persone hanno stati vitali molto diversi, anche in base a quello che vivono nel privato.  Esplicitare questi stati, aiuta anche i compagni di squadra a supportare chi è più in difficoltà.

Quindi è assurdo pensare che basti far lavorare insieme le persone per dieci anni per avere un team. Diventano un team se si attivano tutti i presupposti di cui abbiamo parlato.

Il compito del manager è proprio questo: favorire lo sviluppo delle competenze soft nelle persone del gruppo. Si impegna per primo a conoscerle e metterle in pratica. Poi, partendo da se stesso, trasferisce queste competenze al team.

Nella cultura del management italiano abbiamo ancora la concezione che la ragione e le emozioni siano due cose da tenere separate. Guai a portare la nostra emotività sul lavoro. Mentre da anni le neuroscienze ci dicono che non c’è alcuna separazione tra i due aspetti, perché il cervello è uno, per cui i nostri processi decisionali che sembrano molto razionali, in realtà sono fortemente impattati dai nostri stati emotivi.

Non c’è bisogno di grandi iniziative per iniziare a sviluppare l’intelligenza collettiva. Prendiamo il caso di un gruppo molto numeroso, più di venti persone. Il cambiamento del team può iniziare anche solo facendo prendere alle persone il caffè insieme. Se durante la giornata le persone si organizzano in piccoli gruppi separati, sempre gli stessi, le riunioni diventano una difesa del fortino. Durante i caffè, invece, le persone vengono stimolate a mescolarsi tra loro e soprattutto a non parlare di lavoro. In questo modo è facile che si cominci a relazionarsi in modo diverso. Da individui che facevano cose, diventano persone che dialogano fra loro per raggiungere uno scopo comune.

 

Meglio lavorare su un team nascente o un team già formato da tempo?

È più facile lavorare su un team nascente che su uno che lavora insieme da tanto tempo. Se ci sono anni di dinamiche disfunzionali, bisogna prima spezzare queste dinamiche e poi ripartire. È comunque difficile lasciarsi alle spalle il passato, ci vuole più tempo ed è faticoso. Ma non è impossibile. Se si lascia il tempo alle persone di stare nel proprio cambiamento, accadono le cose più stupefacenti.

Partendo con un team nuovo, si può cominciare fin da subito ad approfondire la conoscenza a un livello più profondo. In realtà è molto semplice, tutto inizia conoscendosi, anche solo condividendo cosa ci interessa, cosa ci appassiona, cosa facciamo nel tempo libero. La parola d’ordine è apertura. Bisogna scoprire il fianco e permettere agli altri di farti del male, per scoprire che l’altro non ti farà mai del male.

In questo modo scopriamo che anche il posto di lavoro è il luogo in cui noi possiamo esprimere le nostre emozioni.

 

Gli eventi che mettono più a rischio l’intelligenza collettiva

I cambiamenti possono turbare le dinamiche di team. Per esempio, elementi che entrano o che escono. Questo è in grado di turbare l’equilibrio che si era stabilito e che si fa fatica a riassorbire.

Un altro elemento di fragilità è il non avere chiaro l’avanzamento rispetto agli obiettivi. Non sappiamo se stiamo progredendo verso l’obiettivo. Magari per mancanza di feedback chiari. Questo è qualcosa che Toyota ha scoperto molti anni fa, il fatto di rendere visivamente chiaro quanto siamo vicini all’obiettivo. Senza questa visione chiara il team si smarrisce. È come chiedere a un maratoneta “corri più che puoi”. Non funziona.

 

Cosa fare quando non tutti sono disponibili a lavorare su se stessi

L’aiuto di una figura di facilitazione esterna al team può essere la chiave di volta. Una persona esterna può creare uno spazio neutro. Anche se questo spazio è conflittuale, la neutralità aiuta a confrontarsi. Bisogna però avere chiaro qual è il contesto da osservare insieme. Non bisogna allargare troppo l’ambito a partire da quello che è successo dieci anni fa, ma ci si concentra su un perimetro specifico d’azione, si ricordano le regole di ingaggio su quel perimetro e si misura la qualità delle nostre azioni. L’attenzione non deve focalizzarsi sulle intenzioni (“avrei voluto”, “avrei fatto”) ma sulle azioni. È difficile, perché abbiamo la tendenza a trasformare i fatti in storie. Il fatto è “Sabrina e Anna sono arrivate alla riunione con 10 minuti di ritardo”. La storia è: “A Sabrina e Anna non importa di arrivare puntuali alla riunione perché sono disinteressate e irrispettose”. Il facilitatore aiuta a fare chiarezza e riportare il gruppo sui fatti. Già solo riconoscendo questa differenza si fa un grande passo in avanti. Certo è che c’è un pezzo di strada in cui ogni membro del team deve decidere per se stesso. Possiamo creare situazioni di contesto per invogliare le persone a salire a bordo. Ma esiste sempre il libero arbitrio. Le persone sono sistemi complessi, che non possiamo gestire, ma governare. Questo significa anche restare aperti alla possibilità che possa non funzionare per tutti.

 

E se un elemento del gruppo decide di opporsi del tutto alla direzione in cui sta andando il team?

Un primo tentativo può essere chiedere direttamente alla persona che cos’è che potrebbe fargli venire voglia di salire a bordo. Regole diverse, responsabilità diverse, lavorare con altre persone, o anche far parte di un altro progetto. È chiaro che la persona potrebbe dire che non le importa niente. A quel punto la vera domanda è “Siamo sicuri che quella persona faccia ancora parte del team?”. A questo punto si può organizzare una riunione di team per ricondividere gli obiettivi. Per esempio, si può partire dal condividere ognuno i propri obiettivi individuali e vedere in quale misura possano essere compatibili con quelli di team, in modo da escludere eventuali conflittualità. Anche se la persona non dovesse dimostrarsi partecipe di questo progetto, per lo meno la squadra è consapevole di aver messo in atto tutto ciò che era in suo potere per includerla nel suo percorso. A quel punto la persona andrà gestita esternamente. Semplicemente non possiamo obbligare qualcuno ad aderire a qualcosa che non vuole. Da quel momento però cambia l’obiettivo: non si cerca più di far salire a bordo la persona non in sintonia, ma trovare una soluzione di compromesso per cui il suo mood non comprometta il resto della squadra.

A volte la persona semplicemente non è consapevole del fatto che con il suo agire sta inquinando la relazione che c’è tra tutti gli altri. Magari è una persona che non saluta, che risponde sempre in modo netto, non ringrazia mai, e così via. E non si rende conto che tutto questo ha un impatto sulle emozioni degli altri e sul clima del gruppo. In questo caso un passaggio significativo potrebbe essere quello di fargli vedere qual è l’impatto del suo modo di relazionarsi all’interno della squadra.

 

Consigli di lettura per approfondire l’intelligenza collettiva

Da dove nascono questi pensieri sull’intelligenza collettiva? Principalmente da tre libri: “Sfruttare l’intelligenza collettiva”, di Véronique Bronckart, “Facilitare i gruppi”, di Stefano Centonze e “Niente teste di cazzo” di James Kerr, che ha raccontato la storia degli All Blacks. Quest’ultimo parla delle dinamiche di team, soprattutto evidenziando cosa non è accettabile. Quindi parla degli anticorpi che deve sviluppare un team per ottenere l’intelligenza collettiva, che servono non solo per raggiungerla, ma anche per difenderla nel tempo. Perché le relazioni tra i membri della squadra possono essere anche molto fragili, e perciò hanno bisogno di una cura continua.

Di Riccardo Ciocci

 

Cosa si intende per servant leadership?

“Una filosofia di leadership in cui l’obiettivo del leader è servire. Diversamente dalla leadership tradizionale in cui l’obiettivo principale del leader è la prosperità della propria azienda o organizzazione. Un leader servente condivide il potere, mette al primo posto le esigenze dei dipendenti e aiuta le persone a svilupparsi e ad ottenere prestazioni il più elevate possibile”.
Questa è la definizione di servant leadership data dalla pagina inglese di Wikipedia.
Appena si legge questa definizione il primo pensiero è “che bello sarebbe avere come capo una persona del genere”, il che rende la figura del servant leader simile a quella dello Yeti: tutti ne parlano, alcuni dicono di averlo visto, ma per la scienza non ci sono prove della sua esistenza.
E quindi la prima domanda che ci si pone è: il servant leader esiste?

 

Servant leader: un bisogno primordiale

Per rispondere a queste domande ci viene in aiuto un testo di Simon Sinek, scrittore, noto motivatore e consulente di marketing inglese: Leader at Least (Ultimo viene il leader) del 2014.
Il tema da cui partire è che il servant leader non è una scoperta, ma una riscoperta.
Sinek espone in maniera analitica quali sostanze producono piacere nella specie umana. Esse sono quattro, nell’ordine: endorfina, dopamina, serotonina e ossitocina.
Le prime due sostanze sono in comune con moltissimi altri esseri viventi e sono prodotte dai risultati che vengono raggiunti individualmente. Esse riguardano unicamente noi stessi e ci danno la forza di raggiungere degli obiettivi che ci prefiggiamo.
Le ultime due invece sono uniche della razza umana, si sono sviluppate insieme alla neocorteccia all’epoca degli homo sapiens e ci danno il piacere nello stare con gli altri. Ci danno la sensazione di essere gratificati dai complimenti dell’altro, e ci danno la soddisfazione di aver aiutato una persona cara.
Citando testualmente:
“L’ossitocina però non ha il solo scopo di farci sentire felici. È anche vitale per il nostro istinto di sopravvivenza. […] È grazie all’ossitocina se riusciamo a fidarci di un altro nel momento in cui costruiamo il nostro business, facciamo qualcosa di difficile, dobbiamo uscire da un momento di crisi. È grazie all’ossitocina se siamo sensibili ai rapporti umani e ci piace stare con quelli che amiamo. L’ossitocina fa di noi degli animali sociali.”
Queste parole ci danno la giusta dimensione di quanto lavorare in team con persone con cui abbiamo un rapporto di fiducia sia un bisogno insito nel genere umano. Spesso, infatti, chi lavora a contatto con il pubblico, una volta finito di lavorare preferisce passare del tempo in solitudine. Al contrario chi svolge un lavoro che manca di relazioni con altri, queste vengono ricercate fuori dall’ambiente lavorativo. È una questione di equilibrio tra le quattro sostanze.

 

Agile, Scrum e Servant leadership

Ci sono diverse realtà che cercano di seguire la rotta della leadership servente e Sinek ne illustra diverse che nel corso degli anni si sono distinte per questo nel panorama americano, ma possiamo fare un ulteriore passo avanti: l’apertura all’errore, la collaborazione, la condivisione delle conoscenze sono concetti molto familiari per tutte quelle aziende che stanno applicando l’Agile Manifesto e il Framework Scrum.
All’interno dello Scrum Team possiamo infatti rilevare la presenza dello Scrum Master, ovvero di un leader a servizio del team, che supporta la squadra senza acquisirne il comando lavorando sulla fiducia (del team e dell’organizzazione in generale), sulla gestione dei conflitti, sulla comunicazione, oltre che sulla diffusione della cultura Agile e del framework Scrum.
Non per questo dobbiamo essere indotti a pensare che un servant leader sia possibile solo attraverso i framework Agile.
Come detto tante aziende sono riuscite a creare un clima di fiducia reciproca anche senza l’utilizzo di Scrum.
Ma di sicuro ora possiamo dare una risposta alla nostra primissima domanda:
Sì, il servant leader esiste.

 

Creare il cerchio della sicurezza

Nel privato come nel lavoro c’è bisogno di instaurare dei rapporti autentici, relazionali e professionali; non si tratta di amicizia ma di ciò che Sinek definisce “cerchio della sicurezza”.
In un gruppo di gazzelle quando la prima gazzella avverte il pericolo di un leone che sta per attaccare e inizia a correre, tutto il branco inizia a scappare insieme a lei. Nessuna gazzella mette in dubbio il perché la prima ha iniziato a correre, ognuna sa che c’è un pericolo e si fida del comportamento della compagna.
In un “cerchio della sicurezza” le cose accadono allo stesso modo. Ogni elemento nel cerchio tutela se stesso e ogni altro membro del team, con la certezza che anche gli altri faranno altrettanto.
L’obiettivo è allargare il cerchio della sicurezza affinché non riguardi solo il team di lavoro ma possa includere l’organizzazione nella sua interezza.
Come fa il servant leader a lavorare al cerchio della sicurezza?

Mantenere il contatto con la realtà. Tenere unite le persone.
Per quanto possano essere utili e funzionali i contatti che manteniamo con chat o mail, niente può sostituire l’incontro faccia a faccia (sesto principio dell’Agile Manifesto).

Gestibilità. Obbedire al numero 150[1].
Ricordare che una persona non può mantenere dei rapporti basati solidi, basati sulla fiducia con più di centocinquanta persone. Il lavoro da remoto non aumenta questo numero[2].
Il top management se vuole che i dipendenti si sentano all’interno di cerchi della sicurezza nel proprio posto di lavoro, deve far in modo che il personale massimo in una sede non superi questo numero.

Incontrare le persone che si devono aiutare.
Incontrare personalmente i dipendenti o i membri del team contribuisce ad alimentare la motivazione.

Dare tempo e non solo soldi.
Un vero leader viene riconosciuto come tale quando è disposto a dedicare alla propria squadra l’unica risorsa che non può essere rigenerata: il tempo.
La riconoscenza e il senso di appartenenza di un membro rispetto al resto del team, sarà tanto maggiore quanto più tempo si sarà speso in tal senso.

Pazienza. La regola dei sette giorni e dei sette anni.
Quanto tempo ci vuole per creare il rapporto di fiducia tale da creare il “cerchio della sicurezza”?
Io non lo so, ma Sinek scrive che ci vogliono più di sette giorni, ma meno di sette anni.

La cultura aziendale gioca un ruolo determinante anche in termini di competitività e in un mondo sempre più complesso caratterizzato da veloci cambiamenti, chi di noi non vorrebbe un cerchio della sicurezza in cui lavorare?
Spazio quindi alle relazioni umane sane, solide e ben orientate: il leader che smette di guidare e si pone al servizio ha la grande opportunità di contribuire a costruire una nuova cultura organizzativa.

 


 

[1] Sinek riporta alla base la legge di Dunbar che riporta l’impossibilità dell’uomo di mantere più di 150 relazioni stabili. Citando testualmente: “Robin Dunbar, antropologo inglese e professore al Dipartimento di Psicologia sperimentale di Oxford […] ha dimostrato che una persona non è in grado di gestire più di centocinquanta relazioni dirette alla volta con I propri simili. ‘In altri termini’, come piace dire a lui, ‘si tratta del numero di persone con cui non vi sentireste imbarazzati a sedervi a bere qualcosa senza essere stati invitati se vi capitasse di incontrarle in un bar.”

 

[2] L’autore riporta le conclusioni di un esperimento fatto dal giornalista Rick Lax su wired.com nel marzo del 2012 raccontato in un articolo dal titolo: “Dunbar’s Number KIcked My Ass in Facebook Friends Experiment.”

Sinek scrive: “Molti hanno creduto che, con l’arrivo di Internet, il numero di Dunbar sarebbe diventato obsoleto. Che saremmo stati in grado di comunicare simultaneamente con tante persone e avremmo potuto gestire in modo efficace un numero superiori di relazioni. Ma I fatti dimostrano che non è così. La partita la vince di nuovo l’antropologia. Possiamo avere anche 800 amici su Facebook, ma è improbabile che li conosciamo tutti personalmente, così come è improbabile che tutti e ottocento ci conoscano personalmente. Se vi sedeste e provaste a contattarli uno per uno, come ha fatto Rick Lax, un giornalista di wired.com, vi accorgereste subito che il numero di Dunbar è sempre valido. Lax si è stupito nel constatare quanto fossero pochi, tra I suoi oltre duemila ‘amici’, quelli che effettivamente conosceva e che conoscevano lui.”